Parliamo in particolare delle malattie autoimmuni, come dimostra lo studio della Sapienza di Roma con le diete povere di sodio possiamo ridurre i linfociti proinfiammatori coinvolti in lupus e artrite reumatoide.
Ogni giorno consumiamo prodotti che contengono sale, nella pasta, in insalate, salumi, pane, formaggio, ma anche nei prodotti in scatola, e persino in quelli dolci come i biscotti. Il sale è onnipresente, ma per la salute sarebbe meglio tenerlo a bada, ripetono da anni i medici. Sarebbe opportuno non sforare la soglia dei 5 grammi al dì, come stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), per ridurre il rischio di pressione alta, malattie cardiovascolari e ictus. Ma ridurre il sale potrebbe aiutare a tenere a bada anche il sistema immunitario e a spegnere l’infiammazione tipica di malattie autoimmuni come lupus e artrite. A suggerirlo è uno studio pubblicato oggi su Plos One, secondo cui la riduzione del sale potrebbe avere benefici addirittura paragonabili a quelli delle attuali terapie.
Già da anni si ha il sospetto che il sale possa complicare l’andamento delle malattie autoimmuni. Alcuni studi condotti su modelli animali predisposti allo sviluppo di artrite reumatoide e lupus eritematoso sistemico, per esempio, suggerivano che una dieta ricca di sodio accelerasse la comparsa delle malattie, che si presentavano anche in modo più grave.
“Sia il lupus che l’artrite reumatoide sono malattie relativamente frequenti, con impatti devastanti sulla vita delle persone, poiché ci si sottopone a terapie pesanti a base di antiinfiammatori e immunosoppressori per questo ci siamo chiesti se un meccanismo analogo potesse essere presente anche nell’uomo: capire se un fattore modificabile come la dieta possa avere effetti su queste malattie è importante, perché permetterebbe di avere a disposizione un’arma in più contro patologie autoimmuni, sia a livello terapico che di prevenzione nei soggetti a rischio per famigliarità”. spiega Guido Valesini, professore di Reumatologia della Sapienza di Roma.
In particolare i ricercatori hanno osservato cosa succedeva ad alcune cellule del sistema immunitario nei pazienti con artrite e lupus sottoposti a regime iposodico per tre settimane, e quindi normosodico per due settimane (attenendosi alle linee guida dell’Oms) per capire se e come il sale contenuto nella dieta potesse avere effetti sulle malattie autoimmuni.
Analizzando le popolazioni linfocitarie dei pazienti che avevano seguito le diete prescritte, i ricercatori hanno osservato che regimi iposodici facevamo aumentare le popolazioni di linfociti T regolatori – con azione antiinfiammatoria – mentre diminuivano i T helper 17 – con azione proinfiammatoria. Il contrario avveniva invece dopo le due settimane trascorse in regime normosodico.
“Quanto osservato rispecchia quello che sapevamo dalla letteratura: sulla superficie dei linfociti esiste un recettore che se mutato, in seguito all’interazione con il sale, induce uno squilibrio nelle popolazioni linfocitarie, predisponendo a patologie autoimmunitarie”, va avanti Valesini.
Cinque settimane però sono poche: “Si tratta di un tempo sufficiente per capire come rispondono biomarcatori come le cellule, ma per capire se i regimi dietetici possono influenzare gli aspetti clinici della malattia abbiamo bisogno di qualche mese”, spiega Valesini. Il prossimo passo quindi sarà quello di capire se gli indici di attività della malattia, elaborati a partire dagli esami sulle articolazioni, registrando per esempio il numero di articolazioni dolenti, tumefatte e compromesse a livello ecografico, possono essere modificate da interventi dietetici come la riduzione del sale.
Capirlo potrebbe rivoluzionare il trattamento di queste patologie.
“Oggi le terapie più innovative a disposizione agiscono sui protagonisti della risposta immunitaria come quelli presi in esame nello studio – spiega Valesini – poter intervenire attraverso la dieta potrebbe avere un impatto importante”.
Non solo a livello terapeutico: le patologie come l’artrite si sviluppano come risultato di una combinazione di fattori genetici e ambientali, quali il fumo: “Chi ha predisposizione genetica non necessariamente si ammala, è necessario che intervengano anche alcuni fattori ambientali: scegliere una dieta povera di sodio potrebbe funzionare come un intervento preventivo”, conclude Valesini.