Una persecuzione dimenticata. Da anni la minoranza musulmana rohingya della Birmania, considerata dall’Onu una delle più vessate al mondo, sfida ogni tipo di pericoli per fuggire in Thailandia o in Malesia. I rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana di un milione e trecentomila persone che vive in maggioranza nello stato birmano del Rakhine, una regione sul golfo del Bengala che confina a nord con il Bangladesh. Da giugno il governo birmano ha dichiarato lo stato d’emergenza nel Rakhine dove si sono verificati duri scontri tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana. In seguito alle violenze, in cui sono rimaste uccise una trentina di persone, migliaia di rohingya hanno cercato di lasciare la Birmania. L’ondata di violenze, esplosione di una rabbia sorda che covava da tempo sottotraccia, sono scoppiate dopo lo stupro e l’omicidio di una ragazza buddista, attribuita a tre giovani rohingya. Nel Rakhine vivono 800mila rohingya, ma molti abitanti non li ritengono birmani bensì bengalesi musulmani, arrivati al tempo del dominio coloniale britannico. E come tali sprovvisti di alcuni diritti fondamentali: cittadinanza, libertà di movimento, di potersi sposare e senza accesso a cure mediche e istruzione. La storia di Bibijan Rahimullah, 27 anni, è solo una scheggia di un dramma complessivo ma riassume le vicende di una minoranza etnica, religiosa e per di più apolide, perseguitata e dimenticata. Credeva che in una settimana sarebbe riuscita a riparare in Malesia ma stava cominciando una terribile odissea insieme ai suoi tre figli. A bordo di imbarcazioni di vario tipo e poi a piedi attraverso la giungla avrebbe attraversato l’inferno per più di un mese. Intorno ai lei, i suoi compagni di sventura morivano come mosche.